Intervista per la rivista “Giovani Genitori – La rivista per le famiglie del Piemonte”, richiesta da Marina Gellona ed utilizzata per l’articolo “Generazioni che si raccontano” sul n. 3/2013
Giorgio Macario – Formatore e psicosociologo, consulente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, docente di Educazione degli adulti all’Università di Genova, membro del Comitato scientifico della Libera Università dell’Autobiografia. macario.g@gmail.com
1. In redazione condividevamo la sensazione che raccontare le storie di famiglia sia fondante per la crescita dei nostri figli. Ci aiuterebbe a sua volta a “fondare” questa nostra sensazione? Dal suo punto di vista è così?
G.M. – Partirei dalla considerazione, solo apparentemente di buon senso ma in realtà imprescindibile, di un amico, psichiatra e psicoterapeuta recentemente e prematuramente scomparso- Roberto Ghirardelli- che in un suo libro appena uscito dice “In altre parole non ci accorgiamo mai abbastanza di quanto dipendiamo dai nostri genitori e dalle nostre prime esperienze di vita.” Non è un richiamo a sottovalutare la necessità che ciascuno ha di costruire percorsi verso l’autonomia, ma è un invito a ben valutare la centralità del nostro operato in qualità di genitori.
Il racconto delle storie di famiglia è una delle principali ‘azioni educativamente connotate’ che contribuiscono alla costruzione dell’identità del bambino ed alla sua appartenenza al nucleo familiare, non solo in senso ‘stretto’, bensì anche ‘allargato’. Pur senza volerla proporre come evidenza scientifica sicuramente comprovata, e ciononostante con il conforto di una lunga esperienza diretta con decine di nuclei familiari ma anche con centinaia di operatori esperti nel lavoro con i genitori[1]credo si possa affermare che il radicamento di ciascuno nella propria storia familiare è un potente fattore di resilienza, che contrasta pur non superandole magicamente diverse problematiche psichiche connesse in particolare alla preadolescenza ed al passaggio adolescenziale ma anche alla crisi di mezza età.
Porterò anche un esempio autobiografico sulla capacità di influenzare il percorso di crescita ‘soddisfacente’ del racconto delle storie di famiglia, anche quando queste non siano così copiose, come nel mio caso. I racconti, in particolare di mio padre, specialmente sul periodo della guerra e poi della resistenza, omissioni e resistenze al ricordo comprese, mi hanno accompagnato a successive esplicitazioni e approfondimenti dalla mia tesina al diploma liceale sulla Resistenza in Liguria (a 19 anni) alla scrittura di un piccolo volume sulla sua storia[2] ( a 52 anni!).
2. Storia, storie, letture. Il racconto della Storia, il racconto delle storie di famiglia, i racconti letterari, le fiabe hanno un ruolo diverso nell’accompagnare i nostri figli a percepire e inventare se stessi e gli altri?
G.M. – Certamente per una risposta esaustiva non basterebbe un manuale. Alcuni flash.
Il volume di racconti e di letture di natura diversa, naturalmente calibrato a seconda delle età dello sviluppo del bambino/ragazzo/adolescente, ritengo non sia mai eccessivo se connesso ad una modalità relazionale del genitore improntata allo ‘stare con’ piuttosto che ‘all’essere al servizio e a disposizione di’. Certamente il racconto della Storia con la S maiuscola ha in genere più finalità ‘apprenditive’ –meno quando questi racconti/citazioni si agganciano adeguatamente all’attualità acquistando valenze più ‘culturali’-, e credo vada molto tenuto in connessione alla comprensione di ciò che ci accade più che allo sfoggio di erudizione.
Delle storie di famiglia si è in parte già detto, e l’attaccamento che molto spesso si sviluppa verso le figure dei nonni[3] è già di per sé significativo del valore che i bambini attribuiscono alle ‘radici’ intese come connessioni vitali: non soltanto in relazione diretta con tali figure, bensì anche mediata in maniera vivificata dal racconto del padre o della madre.
I racconti letterari in maniera più ‘allargata’, e i romanzi o le saghe[4], ma sicuramente le fiabe in modo più empatico e diretto, contribuiscono in modo determinante alla conoscenza di come si possa crescere, vivere e ‘funzionare’ in relazione agli altri. Da un lato c’è la ripetitività del racconto che rassicura e non bisogna mai stancarsi di raccontare anche centinaia di volte la stessa fiaba: ho esperienza diretta, ad esempio, relativamente alla fiaba dei tre porcellini e di quanto gli stessi bambini reagiscano con particolare enfasi al fatto che la 3° casa di mattoni resiste al soffio del lupo, non come la 1° di paglia che vola via in un lampo. D’altra parte c’è una semplicità apparente ma sostanzialmente complessa degli accadimenti, dei timori, delle paure, dei desideri e quant’altro, dalla quale i bambini apprendono in modo emotivamente significativo. L’essere più fantasiosi può rappresentare un obiettivo rilevante del racconto, ma sottolineerei come sia essenziale la maturazione della capacità introspettiva del bambino che agevola la capacità di relazione con l’altro: è uno schema che rimane valido anche per l’adulto, per il quale la capacità autobiografica è essenziale prerequisito per sviluppare una sensibilità biografica (più ci si conosce e comprende, meglio si conoscono e comprendono gli altri, senza ‘confondere’ troppo le ‘storie’ reciproche, comunque diverse).
3. Errori da evitare, buone caratteristiche di una narrazione del proprio passato e delle storie famigliari ai nostri bambini?
G.M. – Ritengo difficile stilare una sorta di ‘prontuario’ relativamente a cosa e come è meglio fare o non fare nel racconto delle storie famigliari. Credo che stimolare la curiosità a proposito degli accadimenti famigliari più significativi, con input contenuti e con connessioni comprensibili, sia il modo migliore affinchè i racconti possano scaturire da richieste di approfondimento da parte degli stessi bambini e contengano naturalmente i dati di realtà consoni all’età e mixati con quel tanto di leggende familiari che sono presenti in qualsiasi famiglia. Un film significativo a proposito può essere ‘Big Fish’, dove un padre piuttosto eccentrico sicuramente eccede nel racconto della storia propria e familiare fino a saturare il ragazzo che diventa adulto, che pensa che tutto sia frutto di fandonie e ingigantimenti fuori luogo, per poi scoprire, praticamente alla sua morte, che molte delle cose raccontate, seppur un po’ caricate e rese ‘magiche’, rappresentano realtà che sono state effettivamente presenti nella vita del padre e della famiglia. Dato che il racconto consente di conoscere e quindi di vivere la vita, penso sia meglio rischiare di eccedere (con misura) che non trovarsi in una situazioni di non comunicare alcunchè o di dominio assoluto dei ‘segreti’ di famiglia.
Infine, anche in questo caso è la maggiore consapevolezza e capacità riflessiva posta in essere dal genitore sulla propria storia di vita, errori compresi, ad essere il mezzo più efficace per non investire il proprio figlio di compiti che non gli spettano, quali le funzioni di supporto al proprio genitore che possono portare in alcuni casi all’adultizzazione precoce (non è così frequente, ma non sono poche le bambine di 8-10 anni che ho visto fare sostanzialmente da madri alla propria madre). Se questi sono casi più estremi, minore è la propria conoscenza di sé che si riesce a maturare, maggiori saranno i possibili coinvolgimenti impropri dei propri figli in tutte le fasi dell’età dello sviluppo. Passato e storie famigliari sono infatti elementi importanti da trasmettere, alla luce però delle situazioni presenti, per poter esplorare ulteriormente e farne tesoro in un futuro.
Un’area che ha caratteristiche particolari è poi quella della narrazione del passato da parte dei genitori che hanno figli adottivi, specie nel caso delle adozioni internazionali; ma per diversi aspetti è un discorso a sé stante e andrebbe adeguatamente sviluppato.
4 . Ci sono secondo lei modi non verbali di raccontare episodi e storie della nostra vita vissuta ai bambini?
G.M. – Se ‘non verbale’ si intende nell’accezione più rigorosa del termine, gli strumenti comunicativi ‘altri’ (lo sguardo, il corpo, la mimica, il tono della voce nell’emettere suoni, le immagini, per non citarne che alcuni) sono sì sempre influenti nella relazione che si ha con il bambino –ancor più quanto più piccolo è- ma trasmettono più noi stessi, l’affetto di cui siamo capaci, le modalità con le quali sappiamo coinvolgere e consolare, suggerire e contenere, che non episodi e storie della nostra vita vissuta, almeno credo.
Se invece ci riferiamo a situazioni che comunque comportano anche l’uso della parola (i burattini per costruire storie, ad esempio, o l’invenzione di fiabe permeate di spezzoni di vita vissuta, o lo scrivere una lettera, o costruire la stessa autobiografia con la finalità principale di lasciarla al proprio figlio), allora tutti questi esempi ed altri ancora possono essere una valida alternativa al racconto più razionalizzato di episodi della vita nostra o famigliare.
La pluralità degli strumenti credo sia infatti sempre raccomandabile, anche perché può adattarsi con maggiore facilità alle specificità degli interlocutori ed alle particolarità dei contenuti.
5. c’è qualche osservazione che queste domande non hanno sollecitato e che secondo lei è fondamentale dire a proposito del nostro argomento?
G.M. – L’unica cosa che sottolineerei è la parte ‘con i figli’, citata all’inizio ma poi nelle domande mi sembra più concentrata nella narrazione di sé e della propria famiglia ‘ai figli’.
Sappiamo che molto, nella società odierna, viene fatto anche sull’onda dei sensi di colpa, del tempo che non si dedica ai figli perché si è troppo impegnati nel lavoro o perché i figli stessi sono super-stimolati con mille attività ed impegni diversi. Le stesse ‘Università delle famiglie’ ci comunicano una necessità di prepararsi al compito impegnativo di genitori e questo proprio quando i bambini sono sempre meno (uno, massimo due per coppia; statisticamente 1,2 quando l’indice di riproduzione della popolazione è di 2,1 figli per coppia). In questo clima l’errore principale che segnalerei è quello di interpretare questi impegni come ‘un compito in più’; occorrerebbe invece liberare spazio (fare più spazio mentale, come direbbe Salomon Reisnik, e più spazio fisico, aggiungerei io) affinchè si possa narrare la propria vita famigliare con il figlio/i figli, partendo da quello che è accaduto e che si è vissuto insieme, per recuperare ciò che magari è stato vissuto in precedenza dai genitori, ed ancor prima dai loro genitori (i nonni). Come si è già visto, d’altra parte, ormai anche fare i nonni è un ruolo cruciale, forse in apparenza più semplice e con meno responsabilità, ma certo non con minore importanza per le tracce che lascia ed i sostegni che fornisce.[5]
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[1] Quest’ultimo derivato in particolare dalla responsabilità scientifica e formativa della formazione nazionale per la L. 285/97 realizzata fra il 1998 e il 2003. Cfr. i Quaderni del Centro nazionale di documentazione e analisi per l’infanzia e l’adolescenza (a cura di G. Macario), n. 15/2000, n. 20/2002 e n. 35/2005,
[2] M. Macario (a cura di G. Macario), Un decennio rosso fuoco, Genova 2009. http://www.lua.it/index.php?option=com_content&task=view&id=926&Itemid=124
[3] Ancora recentemente ho avuto modo di verificarne la diffusione nella consistente presenza di figure di nonni nel richiamo autobiografico di un testo che ho recensito. Cfr.: http://www.lua.it/index.php?option=com_content&task=view&id=2823&Itemid=77
[4] Allargata non vuol comunque dire ininfluente. Ricordo a proposito, sempre in senso autobiografico-familiare, che mia moglie ha letto a mio figlio, quando era piccolo, credo almeno un paio di volte le oltre mille pagine de ‘Il signore degli anelli’, e non so dire se c’è un’influenza diretta sul fatto che il figlio sia diventato in questi anni uno dei maggiori esponenti della più vasta comunità di giochi di ruolo dal vivo in contesti medioevali-fantasy.
[5] Interessante sul tema il testo dell’amica Grazia Fresco Honeggher, allieva della Montessori, su ‘Essere nonni’, della RED edizioni (ristampato nel 2003).