Storia vera di Enaiatollah Akbari – B.C. Dalai Editore (2010)
Fabio Geda è il biografo. Enaiatollah Akbari è l’autobiografo. O forse no.
Enaiatollah Akbari racconta. Fabio Geda ascolta e trascrive. Forse.
Fabio Geda è (meglio, è stato) un educatore. Enaiatollah Akbari è (o meglio è stato) un ragazzo che ne ha viste di tutti i colori. Magari, anche.
Oppure Enaiatollah Akbari e Fabio Geda si incontrano, si ‘sentono’ reciprocamente, si raccontano: l’uno parlando delle mille vicissitudini che l’hanno visto interprete di un viaggio lungo cinque anni –una vera e propria Odissea- che lo porta da Nava in Afghanistan a Torino in Italia attraverso Quetta in Pakistan, Qom in Iran, Van in Turchia e Mitilene in Grecia; l’altro entusiasmandosi per questi vissuti così veri da sembrare incredibili, restando in loro compagnia e agevolando una loro rielaborazione per comunicare con il mondo. Ecco, forse è questo il mix particolare di sentimenti, empatia e vita vissuta che ha dato vita alla ‘Storia vera di Enaiatollah Akbari”, vero titolo del libro, che è stato pubblicato da pochi mesi ed è già diventato un ‘caso’.
Questa storia è quindi una storia di vita, anche se ciò che precede l’abbandono di Enaiat da parte della madre in Pakistan a Quetta e la conquista di una vita degna di essere vissuta affidato a Marco e Danila in Italia a Torino, fa in realtà da contorno alla storia centrale di un viaggio durato cinque anni, lungo le direttrici della disperazione, in cerca di un posto dove poter sopravvivere, e forse poi vivere. Alla ricerca di qualcosa al di sotto di una ‘buona fortuna’, perché, come dice Enaiat, “Tutte le volte che mi augurano buona fortuna, le cose vanno male”.
Ma questa storia è anche una sorta di autobiografia-biografica, la storia implicita di un incontro che ha reso possibile far si che Enaiat possa, nella semplicità della descrizione delle peripezie e delle vicissitudini affrontate, diventare il testimone di un esodo quasi biblico. Testimone di una tragedia che ben si riassume con Enaiat che, per l’acquisizione dello status di rifugiato politico ed il relativo permesso di soggiorno, di fronte al Commissario ottuso e in malafede che diceva non esserci una situazione così pericolosa per gli afghani in Afganistan, tira fuori un quotidiano di pochi giorni prima indicando un articolo dal titolo “Afghanistan, bimbo talebano sgozza una spia” ed affermando “Sarei potuto essere io, quel ragazzino.”
Il permesso di soggiorno dopo pochi giorni arriva, fortunatamente, ma è lui stesso a ricordare poco prima che il ragazzo afghano conosciuto al Ctp Parini non aveva avuto analoga fortuna.
“…prima di occuparti degli altri devi trovare il modo di stare bene con te stesso”, dice Enaiat condensando in poche semplici parole un pensiero pedagogico fondamentale.
Ma questo, assieme alla toccante descrizione della telefonata con la madre ritrovata, rappresenta l’”happy end” della vicenda. Prima ci sono i molti incontri di Enaiat con gli altri come lui e con gli altri diversi da lui, con quelli che lo percuotono e con coloro che lo aiutano. Ma, soprattutto, prima c’è Enaiat che narra la sua storia ed accompagna il lettore, complice Fabio Geda, in un viaggio interiore illuminato dalla luce potente di una ‘bella persona’, un ragazzo resiliente che rende onore alla parte migliore del suo Paese. (G.M.)