“Le comunità per minori oltre il 2010:

documentazione, formazione e approccio autobiografico”[1]

                                                                                                                                                           di Giorgio Macario[2]

 Pubblicato sulla rivista MINORI-GIUSTIZIA n. 4/2010

                                                                              Minori-Giustizia n.4-2010

“I ragazzi  sono alla ricerca di adulti competenti,

non di esperti che presumano di sapere senza chiedere:

hanno bisogno di adulti che non si spaventino delle novità,

che non si illudano di cavarsela con le diagnosi

e le etichette fuori tempo,

che abbiano una vera passione educativa.”

Gustavo Pietropolli Charmet[3]

 

  1. Le comunità per minori fra passato e futuro

Il tema delle comunità per minori è un tema interessante e vitale.

Interessante perché riguarda la nascita e la crescita di una moltitudine di  ‘unicum comunitari’ che non possono essere riprodotti tali e quali neanche se ispirati dalle migliori intenzioni.[4]

Vitale perché coinvolge persone chiamate a vivere un’esperienza educativa di frontiera, sia come bambini e ragazzi che devono essere sostenuti nel loro difficile percorso di crescita, sia come educatori (in senso lato) che vogliono offrire il loro impegno e la loro professionalità per la migliore riuscita di tale fondamentale compito educativo.

D’altra parte, le comunità per minori riguardano sicuramente l’ieri, anche se un ieri molto recente misurabile in alcuni decenni.

Riguardano certamente l’oggi, perché l’accoglienza educativamente orientata in centinaia di strutture residenziali ‘a dimensione famigliare’ coinvolge  migliaia e migliaia di bambini, ragazzi ed adolescenti in tutta Italia.

Riguardano anche, e drammaticamente, il domani.

Drammaticamente per almeno tre fattori fra loro interconnessi:

*perchè le strutture residenziali per minori –non da sole certo, ma in numerosa compagnia con le strutture semiresidenziali, gli interventi domiciliari, quelli territoriali e molti altri ancora- sono esposte al più che dimezzamento degli investimenti nel settore socio-assistenziale ed educativo;

*perché tutte le figure educative chiamate a condurre ed innovare gli interventi vedranno molto probabilmente  peggiorare le condizioni di lavoro, inducendo un circolo vizioso che annichilisce le spinte motivazionali pur sempre presenti;

*perché, infine, non sarà concretamente possibile individuare nel breve e medio periodo alternative educativamente valide alle necessità di accoglienza residenziale per situazioni sempre più complesse.

La stagione storica e professionale delle Comunità per minori, che possiamo ricordare prende avvio di fatto con il D.P.R. n. 616 del 1977 con il trasferimento di tutta una serie di funzioni agli Enti Locali, coincide con un atto che, ancorandoci all’attualità, potremmo definire orientato verso il federalismo. (Si potrebbe anche risalire ai prodromi delle strutture residenziali negli anni ’50 e ’60, ma queste riflessioni non sono specificamente orientate verso una tale ricostruzione storica.[5])

Questo atto di decentramento, realizzato a qualche anno di distanza dalla nascita delle Regioni, ha rappresentato di fatto un’apertura che ha valorizzato le decine di esperienze che operavano piuttosto sotterraneamente, in sotto-traccia, e le centinaia che sono sorte in quegli anni e sono andate ad incrementare, anche dal punto di vista qualitativo, il panorama dei servizi per l’infanzia e l’adolescenza in Italia.

Focolari, case-famiglia, gruppi-appartamento, comunità educative, comunità per minori a dimensione famigliare e così via, rappresentano complessivamente la residenzialità per i minori e vedono spesso al proprio interno un intreccio creativo fra organizzazione professionale e spinte vocazionali, fra educatori professionali e coppie disponibili o volontari dedicati. Le stesse innovazioni che si diffondono nei servizi educativi semiresidenziali, territoriali e domiciliari, spesso prendono avvio da nuclei di operatori che si sono formati nelle esperienze residenziali.

Ed ancora, quasi sempre queste esperienze hanno di fatto preceduto, per i contenuti innovativi e lo slancio progettuale,  la straordinaria stagione della L. n.285 del 1997.

Assumendo comunque come spartiacque significativo il percorso segnato dal Coordinamento Nazionale Comunità per Minori, si può quindi affermare che i 13 anni che separano l’emanazione del D.P.R. n.616 del 1977 dalla nascita del Coordinamento nazionale a Firenze nel 1990, siano stati gli anni fecondi che hanno consentito alle decine di organizzazioni e Comunità per minori confluite nello stesso Coordinamento, e non solo, di crescere e consolidarsi fino a sentire la necessità di una comune proiezione nazionale.

Una aggregazione nazionale ampiamente rappresentativa di approcci ed impostazioni anche differenziate, mai preventivamente schierata e di parte, senza un’identificazione rigida con dimensioni ideologiche e valoriali strettamente omogenee, ma costruita sulle esigenze concrete.

E sono almeno tre  gli elementi che fanno parte della storia delle comunità e che possono rappresentare altrettante piste di lavoro significative.

Si tratta, in particolare, della documentazione, della formazione e dell’approccio autobiografico, come altrettante esigenze orientate al mantenimento di elementi innovativi nell’accoglienza residenziale rivolta a bambini e giovani.

 

  1. La documentazione

 La documentazione del lavoro sociale ed educativo è una funzione storicamente carente e poco presidiata. Basta fare mente locale sulle decine di esperienze che si sono riproposte nel tempo, che hanno lasciato pochissime tracce documentali di sé e delle specificità che le hanno caratterizzate, e che spesso sono state replicate in differenti ambiti locali impedendo di fatto l’avvio di processi virtuosi di apprendimento dall’esperienza e dalle riflessioni esperte dei protagonisti. Non si contavano infatti le sperimentazioni anche molto significative che si perdevano nel nulla, perché non c’era tempo, metodo e costanza sufficiente per documentarle. E così a poche centinaia di chilometri di distanza, anche in contemporanea, o addirittura negli stessi luoghi pochi anni più tardi, si ripercorrevano le stesse strade, riproponendo magari gli stessi errori, con progressioni scarse ed estemporanee.

Negli anni ’80 in diverse parti d’Italia è andata crescendo la consapevolezza di quanto fosse importante non perdere la memoria di quanto si andava costruendo. In conseguenza di ciò, nel decennio successivo, è proprio la nascita del Coordinamento Nazionale Comunità Minori e poco dopo al suo interno del Centro Studi e Documentazione che ha consentito, almeno in parte, di invertire questo trend. Una delle mission principali dell’intervento in ambito residenziale è diventato infatti proprio il favorire la riflessione sulla storia e le origini delle Comunità ma soprattutto sulle esperienze realizzate che in diversi ambiti si andavano consolidando.

La creazione dei Quaderni Educare in Comunità e del Bollettino Bibliografico, con il sostegno determinante della Regione Toscana[6] e la collaborazione costante con l’Istituto degli Innocenti di Firenze, sono stati il segno tangibile dell’impegno in questa direzione.[7]

Ciononostante il primo decennio degli anni 2000 ha visto progressivamente crescere iI rischio di un dissolvimento della memoria storica e di una forzata disabitudine all’approccio documentale.

Quando le stesse basi della sopravvivenza delle strutture vengono messe in forse, e tutto ciò che non è strettamente necessario diventa immediatamente superfluo, l’organizzazione del lavoro tende a perdere le proprie capacità generative ed innovative barcamenandosi in una pratica giornaliera da ‘sopravvivenza’.

La necessità di nuove impostazioni progettuali, infatti, ha molte meno possibilità di essere proficua e vincente se non si basa su di una adeguata capitalizzazione di quanto progettato, realizzato e valutato nel corso degli anni. E la caratteristica di struttura alternativa all’istituto tradizionale, che pure è nel DNA di molte comunità nate proprio sulla base di questo imperativo, rischia di essere dimenticata molto velocemente in assenza di una continua riprogettazione. La chiusura (mimetizzazioni a parte) degli istituti al 31.12.2006[8] doveva comportare per alcuni la stessa scomparsa tout court delle strutture di accoglienza residenziale, e quanto questa aspettativa fosse velleitaria è stato ben evidenziato già alcuni anni fa Pasquale Andria[9].

La centralità e l’importanza del fare casa –come appare meglio tradurre l’assicurare al minore “le relazioni affettive di cui egli ha bisogno” previsto dalla legge[10]-, cercando cioè di sviluppare al meglio una dimensione famigliare, non deve far riferimento ad un unico modello possibile, come ad esempio quello della casa famiglia con coppia residente, ma deve essere adeguato ai diversi contesti socio-economici che si possono presentare.

Anche all’estero, negli ultimi anni, diverse esperienze hanno confermato la grande flessibilità, spesso connessa allo sviluppo di atteggiamenti resilienti, di esperienze più che dignitose dal punto di vista educativo realizzate anche con scarsi mezzi economici e con contenute competenze professionali.[11]

Naturalmente non bisogna enfatizzare questo concetto, perché il ‘fare casa’ -anzi il ‘fare case’ declinato al plurale nei diversi contesti di evoluzione possibili, seguendo uno spunto di Andrea Canevaro[12] – va sì praticato mediante l’introduzione di una dimensione famigliare, ma non va mai contrapposto ad un approccio professionalizzato dell’intervento educativo.

Il proseguire quindi nella documentazione delle esperienze di evoluzione delle strutture residenziali, a partire dalle contaminazioni progettuali possibili ad esempio fra comunità per minori e sostegno agli affidi famigliari, sostegno domiciliare e quant’altro, può costituire, nell’attuale fase di crisi, una sorta di precondizione per non scomparire.

Occorre in questi casi imitare le aziende più lungimiranti: mai azzerare il settore ‘ricerca e sviluppo’ in un momento di forte crisi!

 

  1. La Formazione

Oltre alla documentazione, è l’incremento degli scambi fra operatori, ed il favorire il confronto e la valorizzazione degli apporti professionali mediante interventi formativi  ad aver  rappresentato un’area di grande investimento per molte comunità a livello nazionale, comprese quelle che hanno costituito il Coordinamento Nazionale Comunità Minori. La centralità di questo fattore è testimoniato fra l’altro dal fatto che una delle organizzazioni promotrici delle prime fasi di incontro per dar vita al Coordinamento, in disaccordo sul valore strategico della formazione, è rimasta fuori proseguendo il proprio cammino significativo ma solitario.

La base da cui si è partiti ha riguardato la costruzione di contesti sempre più orientati al bambino come persona (di contro alla spersonalizzazione imperante negli istituti), gli investimenti nella professionalizzazione e nello sviluppo di competenze educative estese ed orientate in senso interdisciplinare (di contro al sistema chiuso delle professionalità negli istituti) e l’attenzione all’inserimento nella rete di sostegno delle risorse e delle competenze educative naturali (di contro alla loro sostanziale lateralizzazione o strumentalizzazione negli istituti). Si è in tal modo  prefigurata una sostanziale riappropriazione dell’accoglienza all’infanzia come problematica non specialistica e separata ma, per quanto possibile, diffusa e socializzata.

La forte strumentalità del contrapporre la centralità della famiglia allo sviluppo di un panorama plurale di strumenti di accoglienza deve essere combattuta non tanto con un arroccamento sulla necessità di rivendicare sempre e dovunque una presenza fortemente professionalizzata, quanto con un’apertura verso sistemi educativi integrati. Quella che in altri approfondimenti è stata proposta come sviluppo di una sussidiarietà educativa che può porsi come principio regolatore fra gli interventi educativi professionali e quelli naturali.[13]

I ruoli generazionali si trasformano radicalmente e svolgere ruoli ‘educativi naturali’ sufficientemente buoni è sempre più arduo: lo stesso Pietropolli Charmet sottolinea la difficoltà del compito genitoriale e di quello educativo più in generale.[14] Occorre quindi, nell’ambito di una dimensione dell’integrazione funzionale del ruolo delle comunità rispetto alle famiglie, alleggerire l’apporto professionale con una attenzione all’educazione naturale da parte delle strutture di accoglienza professionali, che apparentemente diventano più soft recuperando però una valenza meno sostitutiva e più integrativa. Ma bisogna anche che esse consentano un recupero di protagonismo educativo da parte delle figure educative naturali (i genitori in primo luogo) fornendo loro strumenti di analisi e di comprensione del reale più articolati.

In comunità che si pongono con queste attenzioni particolari le accoglienze potranno diventare anche più temporanee, ma aumenteranno considerevolmente le funzioni di service e di supporto alla vasta gamma dei contesti e delle proposte di accoglienza di confine (famiglie affidatarie, ma anche rete delle famiglie naturali, figure disponibili per i supporti domiciliari, ecc.).

In questi contesti che guardano al futuro sono tre le possibili attenzioni, cui si è già accennato in passato[15] , che possono in vario modo riguardare anche gli apporti formativi.

La prima riguarda la cura della autoriflessione professionale connessa alla ricerca di una più precisa identità del servizio che si vuole offrire.

La seconda area trasversale concerne l’immissione dei bambini nella dimensione progettuale, sia in caso di sostegno alle famiglie di origine per la riacquisizione di più consistenti funzioni parentali, sia in situazioni più strutturate di sostituzione temporanea delle funzioni genitoriali.

Una terza area è inerente la riprogettazione educativa che cerca di fornire risposte ai bisogni multiformi ed in veloce mutamento, con un’analisi organizzativa orientata verso nuovi possibili scenari.

 

  1. L’approccio autobiografico

 Favorire un intreccio fra dimensione sociale, psicologica, personale e soggettiva –suggerimento che troviamo in uno degli ultimi contributi di Alain Touraine[16], ma anche in un recentissimo intervento di Salman Rushdie[17]–   ha sempre fatto parte, sotto traccia, del percorso del C.N.C.M. fin dalla sua nascita, e del dibattito più ampio nel mondo delle comunità.

D’altra parte la personalizzazione è sempre stata l’antitesi dell’istituzionalizzazione e nelle proposte di giornate nazionali del Centro Studi e Documentazione che sono state organizzate con cadenza praticamente annuale nel corso degli anni ‘90, l’approccio autobiografico è sempre stato inserito in modo intrecciato con altre tematiche[18], quando non trattato autonomamente[19] . Una comunità è un luogo di vita per eccellenza, dove si intrecciano storie di vita di bambini e giovani, di educatori, ma spesso anche di volontari, di obiettori e quant’altri. Nelle direzioni prima indicate, sempre più, anche di genitori o figure di adulti di riferimento.

E’ per questo che l’apporto biografico porta a meglio avvicinare identità, aspirazioni, sofferenze e bisogni, ricostruendo delle narrazioni dotate di un senso e non totalmente incomprensibili, come spesso sono per i ragazzi e per gli adulti che si avvicinano alla comunità.

Ma è l’apporto autobiografico che richiama più compiutamente alla capacità di lasciare un segno, una traccia di diversa consistenza – meglio se scritta- per contribuire a riconoscersi e comprendersi meglio, per identificare sempre più a fondo gli snodi del proprio percorso vitale. E questo riguarda anche gli stessi educatori (e coordinatori, e volontari), chiamati a professionalizzarsi sempre meglio per poter essere capaci di offrire un sostegno educativo consistente nel modo più naturale possibile.

Riconciliandosi con se stessi, per meglio interloquire con il mondo che li circonda e soprattutto con i bambini ed i ragazzi di cui si occupano.

Riprendendo una delle più lucide analisi sull’approccio autobiografico di alcuni anni fa, si può concordare con l’affermazione che “l’autobiografo si fa educatore”[20], e che dall’autobiografia, mediante l’ascolto degli altri favorito dall’ascoltar meglio se stessi, si possono considerare le storie di vita degli altri con importanti ricadute nella pratica professionale.

Ma è anche vero che nelle situazioni più sensibili a questo approccio, o sensibilizzate dagli stessi apporti formativi,  è “l’educatore che si fa autobiografo”[21], e che, ricostruendo l’intero percorso di una vita professionale a contatto con la comunità e le vite dei bambini che gli sono affidati, riscopre la capacità di narrare di sé e di ripercorrere retrospettivamente una vita intera con la ‘mente’ e con il ‘cuore’.[22]

D’altra parte la diffusione dell’approccio autobiografico nelle professioni educative, specialmente come strumento auto formativo, e la stretta interconnessione esistente fra lo sviluppo di una sensibilità autobiografica e l’attenzione ai percorsi biografici di coloro di cui ci si occupa, si sta progressivamente estendendo oltre i limiti del lavoro educativo con bambini e ragazzi e degli interventi residenziali.[23]

 

  1. Nel tentativo di non subire il domani: per una “nuova epoca di passioni gioiose”

Nonostante un  impegno più che trentennale intorno e accanto all’infanzia e all’adolescenza, particolarmente nelle diverse declinazioni degli interventi residenziali, prefigurare le possibili evoluzioni future non è certo semplice.

L’instabilità, l’emergenza e l’allarme sociale, la scarsità di risorse economiche, l’aggravarsi delle problematiche connesse al disagio ed alla devianza conclamata, le dipendenze ormai plurime e sfuggenti, rappresentano per le comunità residenziali per minori una sfida permanente. Qualche spunto tratto dall’attualità forse potrebbe aiutare a non cortocircuitare i pensieri.

L’impressione è quella, alla stregua del popolo Na’vi  di Avatar[24], di fronteggiare con archi e frecce la capacità prima assimilativa e poi distruttiva degli umani che vengono da un altro pianeta.

Ma se nel primo caso è la coscienza critica di alcuni degli stessi conquistatori unita al respiro potente della terra che unisce tutte le specie animali e non solo, che consente loro di poter sopravvivere e vivere in pace, occorre trovare, per le comunità, quali coscienze critiche poter sensibilizzare e come unire tutti gli elementi significativi del sistema, compreso tutto il mondo dell’educativo naturale e degli stessi ragazzi che vengono seguiti. Per poter restituire loro, ed agli stessi operatori che se ne occupano, un nuovo protagonismo in scenari meno desolanti degli attuali.

Questo accerchiamento che mette sulla difensiva, che pone in discussione la sopravvivenza, può richiamare, alternativamente,  il soccombere oppure lo scontro e il guerreggiare.

Ma in questo modo, seguendo il filo del ragionamento di Baricco nel recente scambio con Eugenio Scalfari sulle pagine di Repubblica[25], se si confondono i barbari con l’imbarbarimento, si rischia di perseguire una superficialità contro la quale, a parole, ci si dichiara.

Specializzarsi e affinare le proprie funzioni, nel caso della residenzialità nelle comunità a dimensione familiare come supporto alle situazioni problematiche di bambini, ragazzi e adolescenti, può essere un percorso di approfondimento contro il pressapochismo e la superficialità di chi spaccia come miracolosa la disponibilità delle famiglie, siano esse affidatarie, adottive o di supporto.

Ma può anche portare ad una situazione entropica, di concreta ‘degradazione dell’energia’, poiché il contesto di riferimento è troppo ristretto, asfittico, e non consente di cogliere le nuove tendenze che non sono univoche, bensì frammentarie, disperse ed a tratti anche contraddittorie. Quindi, in parole povere, da interpretare tentando anche nuove strade.

Se nella società  i nuovi barbari, i portatori di novità, -in una accezione per nulla negativa- sono gli inventori di Google, il creatore di Apple e il fondatore di Wikipedia, anche nel supporto alla residenzialità per i bambini ed i giovani occorre rintracciare i propugnatori di analoghe istanze innovative. Forse si possono proprio rintracciare fra chi cerca di contaminare le comunità per minori con gli affidamenti familiari o fra chi propone concreti e più avanzati intrecci fra l’educativo professionale e l’educativo naturale (o ancora , in altri settori, fra chi non pone in antagonismo l’approccio professionale e clinico nella conduzione dei gruppi con i gruppi di auto-mutuo-aiuto). Al limite, i nuovi barbari potrebbero essere coloro che con un nuovo protagonismo, cercassero di dare strumenti agli stessi ragazzi in difficoltà per farli passare da soggetti passivi a soggetti attivi, magari anche attori e, perché no, autori ed artefici di parte del sostegno loro necessario. Possibilmente in forme più aggregate e meno solitarie.

L’imbarbarimento, in questa lettura traslata, non è dato solo dal pressapochismo e dalla de-specializzazione, ma può assumere anche forme sofisticate, può esasperare il dato clinico verso contesti riservati ed elitari o ritenere onnipotente l’approccio familistico fino al punto di negare validità a qualsiasi altra risposta più articolata e plurima.

Se è vero allora che la superficialità e la profondità, di per sé, non sono più concetti che  possono aiutare a discriminare ed a capire meglio il mondo che circonda, in questo caso, le stesse comunità (come concorda, ad un livello più generale, Scalfari con Baricco) allora la riscoperta di un senso nella vita pratica che viene proposto come possibile via di uscita potrebbe assomigliare molto ad una possibile nuova centralità dell’approccio narrativo e del protagonismo autobiografico nel mondo delle comunità per minori.

Elemento che per altri aspetti si ritrova in una recente intervista di Miguel Benasayag, quando questi parla di “partire dal vissuto concreto degli individui”, “raccogliere i saperi e i vissuti degli individui” , per “sviluppare nuove modalità di relazione fra i cittadini”, al fine di riattivare legami sociali, unico rimedio –dice ancora Benasayag-  alla tristezza e “base su cui costruire una nuova epoca di passioni gioiose”.[26] Per non subire il domani, appunto.



[1] L’articolo rielabora la relazione tenuta dall’autore al Congresso Nazionale delle Comunità per Minori, “Ieri, Oggi e…Domani? Quale futuro per le comunità per minori?”, realizzato a Roma il 12-13 ottobre 2010, in occasione del Ventesimo dell’organizzazione.

[2] Formatore e Psicosociologo. Docente di Educazione degli adulti alla Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Genova. Consulente dell’Istituto degli Innocenti di Firenze.

[3] G. Pietropolli Charmet, Scopriamo la vitalità dell’adolescenza senza farne sempre una malattia, La Repubblica, 23/10/2010.

[4] Emblematico l’esempio di una casa famiglia progettata a tavolino, con le migliori intenzioni e con tutte le risorse necessarie e naufragata prima ancora di nascere, per la quale ci si era semplicemente dimenticati che l’anima pulsante di una struttura di questo tipo è una famiglia che voglia avviare un’esperienza così particolare.

[5] Una bibliografia tendenzialmente ‘storica’ sulle esperienze di comunità per minori, aggiornata fino agli anni ’90,  è rintracciabile sul sito http://www.cncm.it/ alla voce ‘pubblicazioni’.

[6] L’appoggio convinto dell’Assessore alla Sicurezza Sociale Bruno Benigni e l’opera instancabile di Valerio Ducci in qualità di funzionario responsabile e studioso esperto del servizio sociale sono stati unanimemente riconosciuti come uno dei fattori determinanti della qualità delle iniziative realizzate negli anni ‘90.

[7] Un recente lavoro testimonia in particolare l’impegno dello stesso Istituto degli Innocenti in questa direzione. Cfr. G. Macario (a cura di), Dall’istituto alla casa. L’evoluzione dell’accoglienza all’infanzia nell’esperienza degli Innocenti, Collana dell’ Istituto degli Innocenti, Carocci Editore, Roma, 2008.

[8] Cfr. la Legge 28 marzo 2001, n. 149, “Modifiche alla legge 4 marzo 1983, n. 184, recante ‘Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori’ nonché al titolo VIII del libro primo del codice civile”, art. 2, comma 4.

[9] P. Andria, Il superamento degli istituti nella lunga marcia per l’attuazione dei diritti dei minori, in MinoriGiustizia, 2006, n.4, pp. 5-11.

[10] Cfr. la L.n. 184/1983,  art. 2, comma 1.

[11] Cfr. Giorgio Macario (a cura di), “L’operatore oltre frontiera – Percorsi dell’adozione internazionale nei paesi di origine. L’Europa orientale” Collana della Commissione per le adozioni internazionali n.4,    Istituto degli Innocenti, Firenze 2005. Cfr. in particolare il DVD ‘Bielorussia – Bulgaria – Romania – Ungheria’ che documenta anche l’accoglienza residenziale nei Paesi indicati.

[12] A. Canevaro, I diritti dei bambini e delle bambine e abitare l’apprendimento, in G. Macario (a cura di), op. cit.,  Roma, 2008.

[13] Cfr. G. Macario, Formarsi per un’accoglienza residenziale innovativa: dall’istituto alla casa, in MinoriGiustizia, n. 2/2009, pp. 199-207.

[14] Dice ad esempio l’autore allargando il concetto anche agli ‘esperti’: “E’ infatti diventato arduo per gli adulti che interagiscono con il mondo giovanile comprendere il senso e la direzione delle novità che caratterizzano il loro modo di interpretare il processo adolescenziale.” In G. Pietropolli Charmet, op. cit., La Repubblica, 23/10/2010.

[15] Cfr. G. Macario, op. cit., in MinoriGiustizia, n. 2/2009.

[16] A. Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Il Saggiatore, Milano, 2008, pag. 174.

[17] “ …(perché) maggiore è il numero delle individualità che abitano il nostro io, più facile sarà trovare un punto di incontro con altre nature umane multiple e molteplici.” In S. Rushdie, Elogio della contraddizione, La Repubblica, 5 luglio 2010.

[18] Cfr. la Giornata di studio del 4 ottobre 1996 “L’eccezione e la regola nel lavoro educativo – Continuità e discontinuità nell’educare in comunità e nel lavoro formativo con gli educatori.”, o ancora la Giornata di studio del 31 marzo 2000, “Self-help. Benessere e qualità nella vita e nel lavoro sociale ed educativo.”

[19] Cfr. la Giornata di studio del 14 novembre 1997 “Dal racconto quotidiano alla narrazione biografica – educatori riflessivi e pause del pensiero”.

[20] D. Demetrio, Raccontarsi. L’autobiografia come cura di sé., Raffaello Cortina, Milano, 1996, p.191. Questo volume, che costituisce ancor oggi un importante punto di riferimento, ha rappresentato un salto di qualità nella diffusione dell’approccio autobiografico in Italia.

[21] G. Macario (a cura di), ), op. cit.,  Roma, 2008, p. 97.

[22] Cfr. Margherita Bernoni, Una vita per gli Innocenti. L’evoluzione di Casa Bambini nella mente e nel cuore della sua coordinatrice., in G. Macario (a cura di), op. cit.,  Roma, 2008, pp. 71-96.

[23] Cfr. G, Macario, L’arte di formarsi. Professionisti riflessivi e sensibilità autobiografiche, Unicopli, Milano, 2008. E cfr. anche A. M. Pedretti, L’approccio auto(bio)grafico: una metodologia per favorire la riflessività e la relazione, in G. Macario (a cura di), La qualità dell’attesa nell’adozione internazionale. Significati, percorsi, servizi, Collana della Commissione per le Adozioni Internazionali, n. 10, Istituto degli Innocenti, Firenze, 2010, pp. 29-40.

[24] Avatar, James Cameron, U.S.A., 2010.

[25] Cfr. A Baricco, I nuovi barbari, La repubblica, 26/8/2010; E. Scalfari, I barbari non ci leveranno la nostra profondità, La Repubblica, 2/9/2010; A. Baricco, Il mondo senza nome dei nuovi barbari, La Repubblica, 21/9/2010; E. Scalfari, La bandiera di Ulisse per il futuro, La Repubblica, 21/9/2010.

[26] M. Benasayag, Gente che passa il confine dal subire all’agire. L’emergere di forme inedite di azione sociale. Intervista a cura di Paolo Bianchini, Animazione Sociale, n. 245, agosto/settembre 2010.